I precedenti della riforma Gentile

Già a partire dal 1870 iniziarono a farsi strada proposte riformatrici rivolte all’organizzazione, al sistema, ai programmi voluti da Casati.

Quanto all’organizzazione, da parte dei socialisti si auspicava l’introduzione di strumenti atti a favorire la frequenza scolastica agli appartenenti ai ceti meno abbienti, mentre da parte del movimento cattolico si sottolineava l’esigenza della libertà di insegnamento, quindi di condizioni più favorevoli alla scuola privata.

Quanto ai programmi di insegnamento, si auspicava l’abbandono dell’erudizione e si caldeggiava un livello culturale più aperto e meno nozionistico.

Ma fu soprattutto nell’età giolittiana, che le tendenze riformatrici si fecero sentire, perché erano collegate ad una situazione di profondo disagio sociale.

Nel Mezzogiorno e nelle Isole i ceti popolari erano condizionati da uno stato di emarginazione e di povertà, da cui faticavano ad uscire con le sole loro forze, impediti come erano dal permanere di strutture feudali e dalle implicazioni malavitose che esse comportavano; nel nord, al contrario, si avvertivano i primi segnali di una nuova volontà di partecipazione, verso la quale un minimo di istruzione era passaggio indispensabile; se ne ebbe una prova evidente con le nuove disposizioni della riforma elettorale del 1882, che poneva, come requisito per partecipare al suffragio, l’avere sostenuto positivamente l’esame conclusivo alla scuola elementare.

In quegli anni l’economia delle regioni del nord si stava allineando agli standard europei nei modi e nei successi economici: a partire dal 1880 assistiamo alle trasformazioni dell’assetto agrario tradizionale in grandi unità aziendali ed in particolare alla prima fase della rivoluzione industriale, con la conseguente espansione economica che l’Italia ebbe allora a registrare.

Era inevitabile che la situazione innescata dai nuovi meccanismi di produzione sollecitasse livelli diversi e più ampi di sapere poiché, come ha osservato lo storico dell’economia C.M. Cipolla “se in un sistema fondato sull’agricoltura si può anche restare analfabeti, in una società a base industriale, occorrono all’individuo numerosi anni di istruzione e la formazione di una mentalità nuova, in cui l’intuizione va sostituita con la razionalità, l’approssimazione con la precisione, l’emozione con il calcolo” (G. Vigo, Istruzione e sviluppo economico in Italia nel sec. XIX)

Risultava dunque comprensibile che, almeno nelle regioni settentrionali, visto che in quelle meridionali, dopo quasi centocinquanta anni le problematiche di eguaglianza sociale sono ancora lontane da una soluzione, la scuola diventasse oggetto di crescente interesse: se da un lato gli imprenditori capivano che, disponendo di un livello più elevato di istruzione, il lavoratore si sarebbe più agevolmente inserito nel processo produttivo e le sue prestazioni sarebbero risultate più redditizie; dal canto loro gli operai intuivano, che l’essere andati a scuola li avrebbe probabilmente messi in condizione di trovare un’occupazione o, magari, di aspirare ad un lavoro meglio retribuito.

Ampio ed articolato fu il dibattito sulla scuola elementare, su cui si andavano però addensando problemi nuovi e di non facile risoluzione; soprattutto perché l’espansione del sistema produttivo, allargando le opportunità di lavoro dal campo delle funzioni puramente manuali ai diversi settori dei pubblici servizi e delle attività industriali e commerciali, comportava una domanda di qualificazione, che non poteva più essere soddisfatta dalle conoscenze acquisibili o acquisite solo sui banchi delle elementari.

Nei primi anni del ‘900 le scuole tecniche e gli istituti tecnici (che di queste costituivano il livello propedeutico) fecero riscontrare un notevole incremento degli allievi iscritti. Naturalmente l’incremento dell’istruzione tecnica non progrediva con la stessa intensità in tutto il territorio nazionale.

Il latifondismo ed i poteri occulti del meridione e delle isole impedivano il nascere di un serio e costruttivo processo di industrializzazione; ovvio che per quanto riguardava le scelte dell’avvenire scolastico dei giovani, quelli appartenenti alle classi più diseredate (i cui padri dipendevano giorno per giorno dall’essere o no scelti a lavorare da un “caporale”) erano destinati al più totale analfabetismo; mentre ginnasi e licei accoglievano i giovani provenienti anche dalla medio-piccola borghesia, disposta ad ogni sacrificio pur di avere un figlio laureato.

In altro modo procedevano le cose nelle regioni industrializzate del nord d’Italia,dove il settore dell’istruzione tecnica stava, ormai, per avere il sopravvento su quello degli studi classici. Tenuto conto del cambiamento socio-culturale in atto nel paese e delle inevitabili sollecitazioni che esso poneva alla scuola, è comprensibile che da più parti fosse prospettata l’urgenza di provvedere ad un rinnovamento degli studi secondari. Ci si chiedeva, in particolare, se non fosse il caso di mettere meglio a profitto le conquiste del sapere scientifico e della cultura moderna e se non convenisse dare vita ad una scuola media di primo grado unitaria con uno spettro disciplinare più ampio e quindi capace di orientare i giovani con una più matura sicurezza (On. L. Bianchi, 1905).

Al congresso di Firenze del 1909 fu affrontato il tema della riforma della scuola secondaria, che si programmava suddivisa in tre sezioni : scuola “di cultura”, scuola normale per maestri elementari, istruzione tecnica. Si scontrarono le opinioni di Salvemini e Galletti, che continuavano a sottolineare l’alto valore formativo della cultura classica, a cui non dovevano essere ammessi quei discepoli privi di propensione per quel genere di studi; opposte le affermazioni di Mondolfo, che, preoccupato di far progredire i ceti popolari attraverso la scuola, auspicava ginnasi e scuole tecniche aperti a tutti gli allievi. Dall’altra parte Giuseppe Lombardo Radice, relatore sulla scuola normale, denunciava i limiti nella formazione dei maestri elementari: sosteneva che la responsabilità andava rintracciata nella insufficienza della struttura e nella carenza dei programmi. Egli proponeva che dai sei anni di corso (tre inferiori e tre superiori) si passasse a otto: tre di corso inferiore, due di scuola normale preparatoria, tre di scuola normale propriamente detta. Lombardo Radice riaffermava poi l’esigenza di affrontare un programma dedicato alle scienze dell’educazione, capace di offrire ai futuri docenti un approfondimento culturale atto a facilitare il loro approccio con gli allievi provenienti, spesso, da situazioni famigliari ed ambientali disagiate o comunque difficili.

Infine, non può essere tralasciata la novità che precede la riforma Gentile, vale a dire la fondazione del partito popolare di don Sturzo (18 Gennaio 1919), la cui presenza sulla scena politica italiana di quegli anni fu di grande importanza. Nel Programma del partito si parla esplicitamente di riforma scolastica e si chiede con decisione ”libertà di insegnamento d’ogni grado”, lotta contro l’analfabetismo, educazione e cultura popolare, diffusione dell’istruzione popolare. Don Sturzo premeva soprattutto per la libertà di insegnamento, intesa come riconoscimento paritario degli studi compiuti presso gli istituti non statali, per lo più religiosi, proseguendo la battaglia iniziata dal movimento cattolico fin dal 1874, quella cioè di rivendicare l’organizzazione autonoma delle proprie scuole senza dover sottostare al controllo costante di esami sostenuti in scuole statali, tranne che per gli esami finali, che sarebbero poi divenuti di “Stato”.

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