La politica si tuffa nelle stagnanti acque scolastiche

La scomparsa del tradizionale Istituto magistrale non può che procurare sconvolgimenti strutturali e timori, vissuti tanto all’interno quanto all’esterno della scuola. Il passaggio da Istituto a Liceo può lasciar presagire un salto di qualità, ma si sa che prima di buttarsi nel nuovo la gente tende a spaventarsi per la sparizione del vecchio. Il dibattito interno alla scuola è dunque tutto concentrato sulla trasformazione della scuola stessa e sulle strategie per evitare che, durante la forzata metamorfosi, i (pochi) buoi lascino la stalla.

Tali fenomeni vanno inoltre ad intrecciarsi con una dinamica demografica, a livello locale e non solo, ben diversa da quella riscontrata nel trentennio precedente; dinamica che è tornata a mostrare tendenze significative al rialzo soltanto dopo il passaggio al nuovo secolo.

Se la licealizzazione dell’istruzione magistrale appare come una conquista teorica, che occorre mettere opportunamente in pratica, praticissime quant’altri mai appaiono le motivazioni che portano alla creazione di “poli” scolastici. Risulta sempre meno sostenibile economicamente, da parte dei magri bilanci che lo Stato italiano è disposto a concedere alla scuola, la presenza di tante presidenze e segreterie sul territorio, tanto più dal momento in cui i presidi sono divenuti dirigenti scolastici, in base all’autonomia prevista dall’articolo 21 della legge 59 del 1997.

Il manager si addice maggiormente alla grande azienda o al gruppo industriale, piuttosto che alla micro-impresa familiare. Secondo una procedura che appare analoga, l’esecutivo decide che il preside-manager non può condurre una scuola con poche decine di iscritti. I “poli”, in più di un caso, per esigenze di coesione a livello territoriale, si concretizzano in “istituti comprensivi”, includenti scuole di diverso ordine e grado.

L’ultimo scorcio di secolo, caratterizzato politicamente da governi di centro-sinistra, si rivela particolarmente ricco di novità per la scuola, specialmente ad opera del ministro Luigi Berlinguer, il cui fervore legislativo gli procurerà incomprensioni anche in seno alla stessa coalizione di governo.

Il provvedimento forse più incisivo, e notevolmente discusso con toni spesso polemici, è quello dettato dalla legge n. 9 del 20 gennaio 1999: l’innalzamento dell’obbligo scolastico, di cui si era cominciato a discutere una decina d’anni prima.

Assieme al sistema dei crediti e delle “passerelle”, che rendono più flessibile per uno studente il cambiamento di indirizzo di studi, nasce come strumento per innalzare ed uniformare il livello di istruzione e per prevenire la dispersione scolastica.

Accanto all’innalzamento dell’obbligo, non può non essere ricordata la legge n. 30 del 10 febbraio 2000 sulla riforma dei cicli, oggetto, insieme al cosiddetto “concorsone”, delle maggiori discordie fra docenti e ministro e, forse, fra le concause della crisi del centro-sinistra.

Nelle intenzioni del ministro promotore, si sarebbe dovuta concretizzare una maggiore continuità e coerenza fra i diversi gradi dell’istruzione; anche i “poli” scolastici, al di là delle prosaiche esigenze pratiche sopra ricordate, possono essere letti come uno degli aspetti tangibili di questa idea di continuità. Il ministro Berlinguer ritrae la scuola italiana e le sue prospettive attraverso il paragone con un autobus, che deve essere “in grado di portare a destinazione tutti i passeggeri che vi salgono”.

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