La riforma Gentile
Il 29 ottobre del ’22, accantonata l’idea di opporre alla marcia su Roma fascista la dichiarazione dello stato d’assedio, il re Vittorio Emanuele III decideva di convocare Mussolini e la mattina del giorno successivo gli assegnava l’incarico di costituire un nuovo governo. Nel giro di poche ore la lista dei ministri fu definita e ministro della Pubblica Istruzione fu designato Giovanni Gentile.
Fin dal discorso pronunciato il 27 novembre del ’22 per l’inaugurazione della sessione autunnale del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, Gentile dichiaròche tra i punti qualificanti del suo programma c’erano l’introduzione dell’esame di Stato e la promozione della scuola privata, sia pure sotto il controllo statale. La cosa non fece scalpore, perché da tempo le tesi di Gentile e degli intellettuali cresciuti alla scuola di Croce erano note. Persuasi che i mali della scuola dipendessero dal numero eccessivo degli allievi, gli idealisti della scuola di Gentile consideravano l’esame di Stato uno strumento di selezione destinato a sfoltire la pletora studentesca e a filtrare una classe dirigente più seria e preparata: l’obiettivo, quindi, era elevare la qualità dell’istruzione pubblica, in particolare della classica, in modo che “sgombrata – come nel ’18 Gentile aveva scritto in una lettera aperta al ministro Berenini - da tutta quella folla che vi fa ressa e abbassa ogni giorno di più il livello degli studi, essa riuscisse finalmente a svolgere i suoi compiti”. In tale prospettiva si comprende il senso che i gentiliani intendevano dare alla scuola “libera”: essa poteva diventare uno stimolo per quella pubblica e costituire un punto di riferimento per coloro che non fossero stati in grado di adeguarsi alla serietà degli studi della scuola statale. Appena giunto alla Minerva, Gentile si mise dunque al lavoro, forte della preziosa collaborazione di alcuni uomini di valore e della legge 3 dicembre 1922, che attribuiva al Governo i pieni poteri fino a tutto l’anno seguente. Gentile operò da conservatore quale era, per promuovere una riforma che, lungi dal modificare o migliorare lo status presente nella società italiana, ne consolidava, se non addirittura cristallizzava, i rapporti, stabilendo fin dalla primissima adolescenza il futuro di ciascun cittadino. Il governo fascista ne prese atto e grazie a questa riforma “premiò” (almeno dal punto di vista scolastico) la classe sociale da cui provenivano i suoi sostenitori: la piccola e media borghesia Il sistema scolastico gentiliano sotto l’apparenza di proporre soluzioni corrispondenti alle diverse condizioni economiche e sociali delle famiglie, ne sanciva di fatto la impossibilità di un miglioramento socio-economico attraverso l’avvenire scolastico dei propri figli. Va comunque riconosciuto che, in corrispondenza degli impegni internazionali assunti dall’Italia, l’obbligo scolastico fu elevato al quattordicesimo anno d’età, cosicché il triennio di scuola secondaria inferiore entrò a far parte della fascia dell’obbligo.
Per quanto riguarda la scuola secondaria (o istruzione media, come il ministro continuava a chiamarla) Gentile confermava il principio della supremazia dell’istruzione classica, con molte orededicate all’insegnamento della letteratura italiana, di latino e del greco che già era stato il cardine della legge Casati. Nei ginnasi-licei la cultura umanistica, letteraria e filosofica rimaneva quella ritenuta più efficace per formare gli uomini, che avrebbero occupato i posti di maggiore responsabilità sociale. La filosofi a assumev a ne i programm i gentiliani un ruolo di primissimo piano, perché, attraverso di essa, il pensiero dell’individuo avrebbe raggiunto l’autocoscienza delle proprie possibilità e della propria autonomia. Essa diventava così la disciplina centrale nei ginnasi-licei, nei licei scientifici e negli istituti magistrali, sia pure circoscritta, in questi ultimi, ad un ambito più strettamente pedagogico. Nessun insegnamento filosofico, invece, negli istituti tecnici, nei quali l’insegnamento istituzionale del diritto avrebbe potuto svolgere una funzione simile a quella della filosofia.
Proprio per il carattere di scuola “principe”, il Liceo ginnasio doveva essere estremamente selettivo come era dimostrato dalla catena di esami, che gli allievi di questa scuola dovevano superare (un esame per ogni sezione del corso, inizio e fine del ginnasio inferiore triennale e alla fine del ginnasio superiore). Gli esami di licenza liceale (o di stato), l’attuale maturità, prevedevano commissioni esterne formate da docenti universitari.
La legge n.1054 del 6 Maggio 1923 liquidava invece l’istruzione superiore tecnica con una formula lapidaria: “L’istruzione tecnica ha per fine di preparare all’esercizio di alcune professioni”: seguiva l’elenco delle materie, delle quali sarebbe stato impartito l’insegnamento: tra esse, nel corso inferiore, figurava il latino, assente nella scuola tecnica, che fino ad allora, aveva costituito il corso propedeutico al triennio superiore. La polemica contro l’ammissione agli studi universitari dei licenziati della sezione fisico-matematica degli istituti tecnici (trasformata, poi, nel moderno Liceo scientifico) era dovuta soprattutto al fatto che gli studenti pervenivano a gradi più elevati di cultura senza conoscere una parola di latino. Con la riforma Gentile si passava all’eccesso opposto, seminando l’insegnamento del latino dovunque: il latino “prezzemolo” come qualche critico della riforma scrisse. Ma anche questa scelta del latino “prezzemolo” aveva, a ben guardare, una sua valenza politica e neppure tanto nascosta: se il fascismo doveva avere come suo fine prestabilito il ritorno dell’Italia ai fastigi della romanità e la retorica celebrazione del “sole che tornava ad indorare i colli fatali di Roma”, era più che naturale la volontà di diffondere tra quanti più giovani possibile i testi della lingua latina che ponessero ed esaltassero questo proposito. Per convincersi di questo è sufficiente scorrere l’indice degli autori latini e dei passi proposti in lettura ai giovani in tutto il corso ginnasiale: si tratta per lo più di brani esaltanti la superiorità del popolo latino sui barbari, la sua grandezza, il suo destino di reggitore del mondo, dispensatore diciviltà e di giustizia.
La legge del 1923 si occupava, però, soltanto delle sezioni di commercio e ragioneria e della sezione di agrimensura (divenuta in seguito Istituto tecnico per geometri) e trascurava completamente le istruzioni industriale ed agraria, che avrebbero dovuto restare affidate al Ministero del Commercio, Industria ed Agricoltura e delle quali il ministro aveva sottolineato più volte il carattere eminentemente pratico e manuale e tale, quindi, da costituire una forma di apprendimento di livello inferiore.
Con gli istituti tecnici Gentile pensava alla formazione di personale impiegatizio di livello medio-alto per tutti i campi di attività e di libere professioni come quelle dei ragionieri e geometri.
Fu creato, inoltre, il Liceo femminile triennale con la funzione di ridurre sia il numero delle giovani nei licei classici e soprattutto negli istituti magistrali, sia di standardizzare la formazione domestica della donna borghese; ma ebbe vita breve di pochi anni scolastici per la sua inconsistenza dal punto di vista della qualificazione professionale extradomestica della donna in una società che, al contrario, tendeva ad una maggiore utilizzazione del lavoro femminile in tutti i settori e, soprattutto, proprio in quello scolastico. Non bisogna infatti dimenticare che, secondo le leggi allora vigenti, il personale femminile era pagato meno di quello maschile che svolgeva mansioni analoghe e che il lavoro scolastico era quello che più facilmente conciliava le esigenze lavorative della donna con i suoi obblighi familiari. Si è già sottolineato come il problema della formazione degli insegnanti elementari fosse stato oggetto di frequenti interventi da parte di pedagogisti ed esperti scolastici concordi nel ritenere inadeguata la preparazione offerta dalle scuole normali progettate da Casati; Gentile ebbe il merito di affrontare questo problema in una prospettiva nuova e di dar vita ad una scuola secondaria per la formazione degli insegnanti elementari degna di questo nome, anche se con alcune contraddizioni destinate ad emergere negli anni.
Il nuovo Istituto magistrale era costituito da un corso inferiore quadriennale e da un corso superiore triennale, contrariamente alle altre scuole durava complessivamente sette anni e non otto. Le ragioni di questa differente struttura potevano essere molte: in primo luogo, di carattere finanziario, per contenere la spesa, che lo Stato avrebbe dovuto sostenere per organizzare questa nuova istituzione; in secondo luogo per favorire l’accesso a questa scuola dei figli della piccola borghesia, che avevano fretta di trovare una sistemazione lavorativa; ancora, l’importanza di inserire nell’insegnamento elementare personale giovane in grado di rinnovarlo con l’impegno necessario.
Al ministro sfuggì che i programmi dell’Istituto magistrale, essendo stati ricalcati per le discipline umanistiche su quelli liceali, sarebbero stati svolti in un tempo inferiore con la conseguente superficialità di apprendimento che era facilmente immaginabile; tanto che, caduto il fascismo, una delle prime proposte di riforma della secondaria fu la quinquennalizzazione dell’Istituto magistrale.
L’abilitazione magistrale aprì anche agli uomini l’accesso agli istituti superiori di magistero (accessibili per le donne già dal 1882 e poi, nel 1935, trasformati dal De Vecchi in facoltà); questo fu un aspetto certo positivo della riforma.