Verso il terzo millenio
A più di quarant’ anni dalla riforma della secondaria inferiore e, pur senza ripercorrere il dibattito critico in questi anni, di convegni, commissioni, delibere di partiti, dibattiti parlamentari, progetti di legge, è opportuno indicare quali siano stati gli elementi di maggiore contrasto e le ragioni delle incredibili difficoltà, per trovare un’intesa su una componente didattico-formativa tanto importante per la vita del paese.
Il movimento studentesco del ’68 ha messo in luce, pur con gli eccessi di inevitabili strumentalizzazioni, l’insofferenza che i giovani vivevano nei confronti della “vecchia” scuola, inadeguata alle loro aspettative e a quelle della società in evoluzione.
La convinzione maturata negli studenti, ma anche in molti insegnanti e studiosi dei problemi educativi, era che si dovesse creare una scuola secondaria superiore, che avessero diritto di frequentare anche gli appartenenti alle famiglie, che fino allora solo raramente ed in presenza di condizioni estremamente favorevoli, avevano potuto vedere i loro figli affacciarsi alla scuola media superiore. Problema estremamente difficile e complesso sotto tutti i punti di vista non ultimo quello dell’impegno finanziario, con cui lo Stato si dedicò a risolverlo.
Si trattava, quindi, di cominciare ad operare in questa direzione e la prima indicazione, sulla quale parve maturare un accordo tra le parti politiche, fu quella dell’innalzamento dell’obbligo scolastico dai quattordici anni previsti dalla Costituzione, a quindici o sedici secondo i progetti più o meno avanzati. Se l’obbligo fosse stato esteso a sedici anni, e pareva la soluzione più matura, si sarebbe costituito un biennio obbligatorio dopo il conseguimento della licenza media inferiore, che avrebbe allineato l’Italia alla maggior parte delle più progredite nazioni europee. Ma biennio obbligatorio significava un grosso investimento finanziario da parte dello Stato, perché in quel momento (1970-71) coloro che proseguivano gli studi non costituivano neppure il 40% dei licenziati dalla scuola media inferiore; mentre l’elevazione dell’obbligo al sedicesimo anno avrebbe comportato problemi di edilizia scolastica, di attrezzature, di docenti (da queste discussioni prenderanno l’avvio, a partire dal1970, alcuni bienni sperimentali). Un altro motivo di discussione, che affiorò subito con insistenza fu quello della finalità da attribuire alla scuola secondaria riformata o al biennio obbligatorio. Le opinioni scandivano tre tipologie di fautori: quelli di una scuola di formazione generale; altri di una scuola preprofessionalizzante; mentre gli ultimi auspicavano una scuola avente precisi obiettivi di addestramento professionale.
In assenza di accordo tra le diverse forze politiche e di una base finanziaria capace di supportare una vera riforma, da subito si decisero quei provvedimenti tampone, che fino al 2004 hanno contraddistinto la scuola secondaria superiore.
Basti pensare al decreto (D.L 15 Febbraio 1969) che aveva proposto un esame “provvisorio e sperimentale” di maturità; esso è rimasto operativo dal 1969 al D.M 20 Novembre 2000; non bisogna poi dimenticare l’introduzione sperimentale del quinto anno facoltativo degli istituti magistrali e i licei artistici (DL 15 febbraio 1969). Ugualmente significativo è stato l’avvio della sperimentazione negli istituti professionali statali con il prolungamento dei corsi e con la creazione della maturità professionale quinquennale (27 Ottobre 1969 n. 754).
Nel 191 l’Onorevole Misasi, continuando nella politica dei piccoli interventi, proponeva la sostituzione degli esami di riparazione con corsi di recupero per gli alunni che accusassero particolari lacune (tale intento sarà realizzato dal Ministro D’Onofrio nel 1994).
Sempre continuando nella politica dei piccoli passi, sono state deliberate le sperimentazioni di piani di lavoro con la partecipazione di studenti e famiglie (anticipazione dei Decreti Delegati approvati nel 1974), il prolungamento di tutte le scuole a cinque anni, così che tutti gli ordini di scuola secondaria avessero la medesimadurata (anche perché era già stata deliberata la liberalizzazione degli accessi all’università da qualunque Istituto superiore di provenienza)
Proprio la discussione sul punto che rimaneggiava le proposte fatte ed intendeva negare l’innalzamento a cinque anni dell’istruzione magistrale comportò l’intervento di qualche franco tiratore e la bocciatura conseguente dei provvedimenti (Misasi - 7 Aprile 1971).
E’ comunque sempre più evidente la discrasia tra una scuola “irriformabile” ed una società in forte trasformazione, che fa scattare, di nuovo dopo il ’68, la molla delle proteste studentesche, della “pantera” degli anni ’80 e dei “nipotini della pantera” nella metà degli anni ’90. Risultato di queste proteste è l’autonomia scolastica, sancita dall’art. 21 della legge del 15 Marzo 1997. L’autonomia è indubbiamente un passo avanti coraggioso per una scuola storicamente rigida e centralizzata: significa responsabilità, flessibilità e capacità di adeguarsi in tempi brevi alle richieste continuamente montanti dalla società e quindi maggiore aderenza alle necessità e alle istanze delle singole comunità.
Ma nel volgere uno sguardo di insieme alle vicende richiamate, viene spontaneo sottolineare come le acquisizioni della politica scolastica siano state nel complesso modeste negli ultimi dieci lustri: eccetto poche decisioni (es. la scuola media unica inferiore) il sistema scolastico italiano non ha realizzato trasformazioni di grande rilievo. Il settore dell’istruzione è stato certamente quello dove maggiore è stato lo scarto tra propositi coltivati e risultati effettivamente raggiunti: le forze politiche hanno compreso la necessità di superare i limiti di una scuola di elite, ma non sono state poi in grado di creare le strutture per una formazione adeguata alle necessità di un paese caratterizzato da profonde trasformazioni socio-culturali; hanno intuito il bisogno di un più diretto coinvolgimento della società nella vita della scuola, ma non hanno avuto la determinazione e la maturità politica di attuare una riforma efficace e moderna, meno rigida e burocratica.
Nel Maggio del 2005 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto di riforma complessivo delle superiori, varato dopo quattro anni di lavori dal ministro Letizia Moratti.
Il testo definiva il futuro assetto della scuola statale costituito da una serie di licei capaci di rispondere alle più vaste ed articolate scelte degli allievi nell’ambito degli studi classici, scientifici, linguistici, filosofici, economici, tecnologici ed artisticomusicali. In alternativa il sistema proponeva un percorso di istruzione e formazione professionali di competenza regionale, di cui si stabilivano i requisiti minimi ed essenziali: 990 ore di presenza annuale con percorsi triennali e quadriennali, con la frequenza di un quinto anno facoltativo si sarebbe potuto accedere all’università.
Un’unica sede chiamata Campus avrebbe dovuto ospitare i licei a indirizzo e le scuole di formazione professionale “per facilitare il raccordo tra loro e con il mondo del lavoro”.
Nel Maggio del 2006, con la formazione del nuovo governo di centro-sinistra, il nuovo titolare del dicastero di Viale Trastevere Giuseppe Fioroni con un decreto annulla l’impianto della riforma Moratti, cancellando gran parte delle decisioni prese. Allo stato attuale delle cose risulta piuttosto difficile esprimere dei giudizi o azzardare delle previsioni sulla bontà delle proposte, che saranno formulate per i prossimi anni. Molto meglio affidare… ”ai posteri l’ardua sentenza”!